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Ricordi del giorno della festa di San Giuseppe – di Cosimo Pasimeni

da Cosimo Saracino
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Sono principalmente due: la tria e la cuccagna in via Roma, angolo via Jacopo da Mesagne dove c’era una piccola cappella dedicata al Santo, poi demolita e ricostruita più grande come attualmente si vede.
Per la cuccagna ricordo un episodio che mi è sempre rimasto impresso.
Un giorno presso l’Istituto Magistrale di Brindisi entrò nella mia classe il preside; non ricordo di che cosa si discusse, ma solo che rivolgendosi a noi mesagnesi ci apostrofò con l’espressione “voi mesagnesi siete dei vandali” e ci spiegò anche il motivo raccontando che un giorno, quello appunto di San Giuseppe, si era recato presso il nostro ospedale per una visita ad un parente e che nel fare la strada del ritorno per la stazione ferroviaria rimase scandalizzato nel notare che in mezzo alla strada, appunto Via Roma, c’era il palo della cuccagna con in cima appeso, legato per i piedi e capovolto, un agnellino che si dimenava belando per l’innaturale posizione.
Effettivamente tra i vari “premi” in cima al palo, oltre ad alcuni generi alimentari, si usava appendere un agnellino o un gallo o un coniglio, ovviamente tutti vivi; cosa poi giustamente proibita ma lecita in quel periodo, ma agli occhi del nostro preside una sinistra novità tanto da definirla comportamento da “vandali”.
Tralascio tutta la sequela della manifestazione perché già altre volte raccontata.

Il secondo ricordo è quello della “tria ti San Giuseppu”, una tavolata che si svolgeva principalmente in mezzo alla strada o in caso di maltempo in qualche “rimisoni” ed era offerta ai poveri del paese.
Normalmente chi lo organizzava si chiamava Pippinum, Peppu, Ppina, o altri nomi popolari derivanti da Giuseppe e, particolare importante, componente di una famiglia povera.
Ricordo che vicino casa mia chi la organizzava era una famiglia composta da padre, madre e figlia con due bambini e che vivevano in una sola camera con un corridoio ed un piccolo ortale.
Però per l’organizzazione potevano contare sulla collaborazione di tutti i vicini di casa che oltre ad offrire, ognuno secondo le proprie necessità, i vari viveri si disponevano anche per cucinare e per servire poi a tavola.
Perché poi scomparve questa tradizione?
Lo spiegava Don Saverio che come sacerdote veniva invitato a benedire la tavola.
Siamo ormai alla metà degli anni 50 e “per fortuna” i poveri diminuivano, e alcuni tra questi, anche per una propria dignità, non erano più disposti ad essere oggetto di spettacolo davanti ai tanti curiosi che inevitabilmente si fermavano a guardare. Questa situazione portò anche a delle assurdità nel senso che, pur di avere partecipanti, gli organizzatori si “rubavano” i poveri tra di loro offrendo addirittura dei compensi pur farli partecipare alla propria tavolata e fu così che in soli pochi anni la “tria ti San Giuseppu” non si organizzò più; dopo alcuni decenni fu riproposta in qualità di “sagra”, ma ormai senza il suo spirito originario di solidarietà che lo aveva caratterizzato in quei tempi difficili.
Ma chi erano i poveri di cui sopra? Erano persone che si vivevano di piccoli espedienti, altri che giravano per le case a chiedere l’elemosina o anche solo un pezzo di pane. La generosità non mancava, ma quando non si era in grado di soddisfare la richiesta si usava, molte volte anche con vergogna, dire “la Matonna sapi”, anche se la vera origine di questa espressione deriva dal non poter fare l’offerta ai questuanti delle varie confraternite quando giravano casa casa per raccogliere fondi per le varie feste cittadine.

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