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Lorenza Santacesaria, come si poteva non amarla – di G. Florio

da Cosimo Saracino
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Campeggiava, nella stanza immacolata del suo studio di via Roma, un poster di una Festa dell’Unità di qualche decennio prima, della quale era stata proprio lei la «testimonial», universitaria bellissima ed intensa. Quella immagine mi torna con prepotenza alla mente oggi che Lorenza Santacesaria se n’è andata così tanto presto, lasciando attorno a sé un dolore grave ma anche un formidabile esempio.

Lorenza – in quanti la chiamavano semplicemente per nome, acclarando la sua affabilità! – è stata molte cose, nell’immaginario collettivo mesagnese. Anzitutto uno stimatissimo medico di famiglia,  dalla sala d’attesa sempre piena zeppa di pazienti che, proprio nel suo caso, dovevano dimostrare una dose supplementare di pazienza. Perchè per lei ciascun «cliente» non poteva essere il destinatario di qualche sbrigativa prescrizione, ma era una persona, con un carico di problemi più o meno ingombrante o magari semplicemente con uno spaccato di vita di cui interessarsi. Ed allora ogni visita diventava un toccasana per chi le era a tu per tu, ma uno stillicidio per chi attendeva a ruota: ma tanto, a turno, spettava a tutti aspettare in chilometrica coda fuori dalla porta per poi finalmente incontrarla. In quella pratica quotidiana per lei anche stancosa (perchè significava ogni volta far tardi, esondare dagli orari affissi in bacheca, ritornare in affanno dalla famiglia), Lorenza Santacesaria convogliava la potenza di una profonda umanità, che è senza interpretazione la più alta applicazione del Giuramento di Ippocrate: «Giuro di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno ogni mio atto professionale». Quella sua assidua pratica umanitaria era dunque fondata sulla compassione (e cioè, al di là della maniera, sulla spartizione della sofferenza), così come sulla partecipazione all’esistenza altrui che, se non necessariamente piagata, conserva sempre tra le pieghe intime un po’ di dolore. Come si poteva non amarla, una persona così.

Ma la dottoressa Santacesaria è stata anche una figura politica e civile di prim’ordine: in due occasioni consigliera comunale, la prima volta quando ancora la politica aveva il senso della pubblica utilità, l’ultima due consiliature addietro, appena prima che scoprisse la malattia. Accanto a quelle funzioni più formali assegnatele dall’elettorato, puntualmente indici di un alto gradimento sociale, lei ha svolto un ruolo più di sostanza e cioè quello di punto di riferimento, di terminale etico per una larga fetta della comunità mesagnese. In entrambi i casi, Lorenza non ha mai rinunciato ad assecondare la propria indole, plausibilmente impastata di dolcezza e radicalità, un ossimoro soltanto apparente ma poderoso per incisività ed efficacia. Comunista «non embedded», femminista ante litteram, non è cascata nei tranelli disseminati dalla Storia, mai scambiando l’autonomia di giudizio, il diritto-dovere dell’indignazione, l’emancipazione con la divisa dell’omologazione che invece molte altre donne – anche della sua stessa generazione – hanno preferito acriticamente indossare.

Infine, un apparente paradosso. La malattia, anziché deprivarla di forze, di proattività, di serenità, le ha infuso una nuova energia, una rinvigorita giovinezza, restituendole sorrisi belli e freschi come quelli di sempre. Non ha combattuto una battaglia che lei prevedeva di dover perdere, ha scelto di ignorare la belligeranza con la morte, di calpestare fino all’ultimo il lastricato dell’equilibrio, della pace, alla fine dei conti della vita stessa. Lo raccontava – con garbo asciutto, suscitando ammirazione ma anche la pelle d’oca – lei stessa, incontrando conoscenti e sodali: «Ho molto vissuto e ho vissuto bene, provo a godermi quello che mi resta». Ma lo raccontavano anche immaginifiche fotografie postate su Facebook, lei sempre sorridente (il sorriso era la sua griffe, il marchio di autenticità), ora abbracciata stretta stretta all’acutissimo marito Marco, ora ai tre figli cresciuti in maniera tanto invidiabile (con due genitori di quel calibro!), sempre in viaggio, spesso in riva al mare, a rimirare l’infinita finitezza del mondo, ma senza nostalgia, senza rimpianto.

Ora il cordoglio è d’obbligo per la scomparsa di una donna davvero degna di questo nome, anche se verrebbe da urlare un «urrah!» per quello che è stata, per come ha vissuto e pure per come se ne è andata, sparigliando le carte al dolore.

Giuseppe Florio

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