Home Attualità Anna Milanese, nel trentennale la Fondazione si rilancia: “Adotteremo un villaggio”

Anna Milanese, nel trentennale la Fondazione si rilancia: “Adotteremo un villaggio”

da Cosimo Saracino
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Nei signorili ambienti del teatro comunale di Mesagne si srotola la pellicola dei primi trent’anni della Fondazione dedicata ad Anna Milanese, sottratta alle premure della famiglia mentre varcava la soglia dell’adolescenza, 35 anni addietro. L’occasione è per il trentennale del sodalizio, in platea e nei palchi sono assiepati i volti di generazioni diverse ed interclassiste, le barriere che convenzionalmente istituiscono le brutture della presente epoca – il ceto sociale, il censo, i titoli di studio – qui sembrano abbattute, anche i sani siedono fianco a fianco agli ammalati per dimostrare che ciascuno ha la propria titolarità, nel nome di Anna.
I convenuti hanno portato in dono un sentimento insieme contrito e fiducioso e non è accaduto – soltanto – per l’appello ineludibile di una figura tanto assertiva quale quella di Giuseppe Milanese, fratello di Anna e primo motore immobile della Fondazione. No, piuttosto il colpo d’occhio sembra quello di una famiglia allargata, di una gigantesca saga familiare, cento, duecento persone legate tra loro da una congiunzione accesa tre decenni prima da Totò e Bianca, genitori affranti e poi coraggiosi eroi di una guerra al dolore e non al destino.
La serata nasce per la ripartenza, necessaria dopo la fisiologica flessione (di entusiasmi, energie, iniziativa) degli ultimi periodi e trova nuova linfa nei potenti appunti di Totò, scomparso pochi mesi fa: “Volevo tornare in Africa, l’Africa è una preghiera”. Così il continente martoriato, pensiero sublime e precoce nei diari di Anna, assurge a leitmotiv dello spettacolo che allieterà le due ore e passa degli astanti.
Esordisce un’altra Anna Milanese, figlia di Giuseppe, membro del consiglio di amministrazione, radiosa e commossa, che centellina versi onesti per spiegare il dolore come chiave di lettura delle priorità dell’esistenza.
Appena prima che si scatenino danze tribali e ritmi ipnotici, sullo sfondo le foto di bambini africani dolenti, un cammeo straordinario emoziona i presenti: è il video, raccolto rudimentalmente con uno smartphone, di Papa Francesco, di cui la famiglia Milanese è intima. Bergoglio è, come suo solito, generoso: “Buon giorno, mesagnesi. Il progetto della Fondazione non è un piccolo progetto, perché serve a far crescere, educare, far studiare bambini. È un grande progetto ed io vi auguro che sia fecondo”.
Ed è proprio la fertilità il tema maggiore dell’impresa nata dalla morte di Anna, questo spettacolo – eclettico potpourri di cultura africana, di melodie tradizionali italiane, di poesia, di testimonianze recitate, finanche di pizzica salentina – compreso. Perché, nonostante la giovanissima età, in Anna covavano una inclinazione straordinaria per i sofferenti, così come la sensibilità per la musica, in definitiva un animo ricco e, appunto, fecondo. Per questo lo sforzo dei trent’anni trascorsi è stato di ravvivare il più metafisico tra i paradossi, la morte consumata che si fa pratica di vita, che allestisce progetti, che li realizza, che prefigura prospettive. Non è quindi il dolore del lutto – che è il più atroce perché cupo, sordo, secco – a vincere, ma è la speranza che raccoglie il testimone, è il cordoglio che, capovolto, si fa letizia, joie de vivre. Lo spiega bene papà Totò nei suoi scritti attraverso le parole di Sant’Agostino: “Non ti chiedo perché me l’hai tolta ma ti ringrazio perché me l’hai data”.
Il padre di Anna, insieme alla moglie Bianca, molte volte evocata questa sera, è stato l’Atlante che, facendosi carico di una enorme tragedia personale, si è fatto carico del pubblico dolore del mondo. Poi, però, gli atlanti si sono moltiplicati, moltiplicandosi le responsabilità di portare avanti progetti via via più ambiziosi ma anche la passione come stendardo nel nome di Anna. E questo è un altro e non meno importante prodigio, o miracolo laico: perché, lo illustra con efficacia lo stesso Giuseppe, la Fondazione – che era della famiglia Milanese – oggi è di tutti, di tutti coloro che vogliono farsi “ambasciatori di speranza”. È anche il Pontefice ad indicare la strada, retroscena rivelato sempre da Giuseppe: “L’Africa è dove vivi”, così intendendo che “il mondo si cambia partendo da chi abbiamo accanto”. Allora, nel trentennale, muta il volto dell’Ente intitolato alla giovane mesagnese: è il volto dell’età adulta, che si acconcia a vivere la modernità con gli strumenti più efficaci, con protagonisti pescati nella nuova generazione e con un obiettivo di enorme portata.
“Ventitré anni fa”, raccontano due monaci cistercensi, “Totò Milanese partí per l’Eritrea con Padre Paolino e conobbe la poverissima realtà di un villaggio senza acqua corrente ed elettricità, senza neppure un ambulatorio, senza una scuola media, con una sola auto a disposizione”. La meta annunciata a fine spettacolo è da far tremare i polsi: adottare un intero villaggio, la comunità etiope di Halay. L’abbraccio finale tra tutti gli artisti saliti sul palco, le parole cariche di ottimismo di Giuseppe, l’entusiasmo di figli e nipoti, l’afflato amorevole degli intervenuti lasciano confidare che anche un progetto tanto complesso sarà realizzato, ancora una volta per Anna, ancora una volta grazie a lei.

Giuseppe Florio

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